Intervista ad Alfredo Lami

Una volta al mese a Berlino si riunisce il club ciclistico italiano Velo Club Avanti. Sulla maglietta ufficiale è raffigurato il mondo e vi è scritto: Pasta Pizza e Gelati Ristoranti Italiani nel mondo. L’associazione è stata fondata da Alfredo Lami, proprietario del ristorante “Antica Roma”, dove, prevalentemente, i soci si riuniscono una volta al mese. Alfredo Lami, originario di Roma, è stato un protagonista del ciclismo italiano degli anni ’60. Ha riportato numerosissime vittorie nelle categorie degli esordienti, degli allievi, dei dilettanti. Sfortunatamente non è poi passato alla categoria professionisti perché ha avuto un incidente che gli bloccato la carriera. Dopo aver fatto svariati lavori come guardia giurata, massaggiatore, impiegato presso il Ministero ed essersi divorziato dalla sua prima moglie, si è trasferito nel 1982 a Berlino.

Qui è riuscito, dopo essere convolato di nuovo a nozze, ad avere successo come ristoratore. La sua passione per il ciclismo non l’ha mai abbandonata. Il suo club, che è frequentato anche da molti giovani, ha partecipato a parecchie gare a Berlino, raggiungendo ottimi risultati.

Il giovane Alfredo Lami a Roma - Foto: Emilio Esbardo

Di fronte ad un ottimo vino rosso e a delle pietanze gustose, Alfredo Lami, mi ha concesso gentilmente un’interessante intervista, nella quale ha ripercorso le tappe principali della sua vita: la sua infanzia nella periferia romana, la sua vita da sportivo e Berlino. Il suo ricordo principale va, però a suo padre, il quale si era sacrificato per comprargli la sua prima bicicletta usata (un bene di lusso in quel periodo), che lo spingeva costantemente a coltivare la sua passione e lo portava a vedere le gare: Alfredo s’impressionava quando vedeva tutte quelle bici cromate, tutte belle. Suo padre non è riuscito a gioire dei suoi successi ciclistici, perché è morto prematuramente per salvare due compagni di lavoro nella distilleria di catrame, dove lui era impiegato come caporeparto.

Da bambino, a sei anni, mio padre mi portava sulla moto a vedere il passaggio del giro d’Italia dove partecipavano Fausto Coppi e Gino Bartoli. Io ero un grande tifoso di Fausto Coppi, perché faceva delle imprese memorabili e che, tutt’oggi, è considerato uno dei più grandi campioni della storia di questo sport.

Quando hai iniziato a correre?

Ho iniziato nel 1958 dopo che mio padre riuscì a comprarmi la mia prima bicicletta usata. Partecipai alle preolimpiche, chiamate così, perché nel ’60 ci sarebbero state poi le olimpiadi a Roma: sapevo bene che non avrei mai concorso alle olimpiadi, ma già partecipare a queste era una cosa meravigliosa.

Le biciclette erano molto costose all’epoca?

Per rendere l’idea, mio padre dovette smettere di fumare per un anno per mettere da parte 18 mila lire. Il suo stipendio ammontava all’incirca a 40.000 lire al mese ed era una buona paga perché era caporeparto di una distilleria di catrame dove si produceva naftalina.

La Roma della tua infanzia era differente da quella odierna?

Io vivevo in periferia ed era come abitare in un paese. Era una zona bellissima. Con mio fratello potevamo correre e giocare nei prati senza nessun rischio. Avevamo un cagnolino che portavamo con noi. Nell’edificio in cui abitavamo, ci conoscevamo tutti e tra di noi c’era amicizia vera. Oggi abitando in una città come Roma, anche in periferia, il vicino di appartamento del tuo palazzo, spesso, non ti augura neanche buongiorno quando esci di casa. Non ti conosce nessuno. È diventato, purtroppo, tutto troppo anonimo.

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Poi è giunta la proposta di correre per Libertas?

Sì, nel ’59, durante le preolimpiche, ho avuto la fortuna di vincere tutte e tre le gare. Mio padre era morto in un incidente di lavoro ed io nel suo ricordo mi allenavo seriamente con la bicicletta, che lui mi aveva comprato. È stato così che un dirigente della Libertas Trasteverina, mi ha notato e mi ha fatto firmare un contratto. I miei nuovi compagni di squadra hanno fatto una colletta perché la mia bici era inadatta. Il dirigente stesso, che era anche meccanico, ha costruito un telaio su misura, che mi sarebbe servito a partecipare alle gare del 1960: era un torneo organizzato dalla Federazione Ciclisti Italiani. Nella colletta c’erano giusto i soldi per comprare i tubi della bici, che però fu assemblata benissimo. Ho vinto 13 gare consecutivamente ed ho stabilito un record: sono arrivato primo in 21 gare su 24 ed ho ottenuto il bracciale d’oro del Corriere dello Sport con il massimo punteggio nella storia di questo torneo. Andreotti mi ha reso omaggio con una medaglia extra, sua personale, con la scritta: “Ad Aldredo Lami, miglior ciclista 1960”. È stata una bella soddisfazione.

Lei ha conosciuto personalmente Andreotti. Che impressione le ha fatto?

Libertas era una squadra che faceva parte della DC. Andreotti era appassionato di sport e promuoveva molto i giovani. Era un grandissimo personaggio. Una volta mi ha anche chiesto di entrare in politica ed io ho risposto: “mi dispiace io sono capace di dire solo qualche bugia, ma mentire agli elettori non me la sento proprio”; perché credo che sia impossibile per qualsiasi politico mantenere tutte le promesse elettorali. Dunque ho rifiutato.

A quali campioni t’ispiri?

A me piaceva molto Coppi perché aveva le mie stesse qualità fisiche, però mi hanno ispirato anche il belga Vanstenberg e Vanlloi, che vincevano allo sprint, esattamente come me. Mi piaceva battere gli altri ciclisti in volata.

C’è una gara che ti è rimasta particolarmente nel cuore?

Sì. Mi ricordo di una giornata che c’erano 45 gradi all’ombra a Orte Scalo, una delle città più calde d’Italia. Io e il mio compagno di squadra siamo partiti per ultimi, perché eravamo ancora indecisi se partecipare alla gara oppure no. Dopo 5-6 km eravamo ancora in coda. Fortunatamente la famiglia del mio compagno ha iniziato ad insultarci, provocandoci a dare del nostro meglio. Io dissi tra me e me: adesso vado a prendere un paio di premi. Mi buttai nella discesa, raggiunsi un gruppo, feci il primo sprint, uno mi batté, gli altri non reagirono. Io proseguii e nella seconda salita ero rimasto da solo, avevo distaccato tutti gli altri. Pensavo costantemente che mi avrebbero ripreso, ci è riuscito solo uno che però battei in volata. Penso che questa sia stata una delle più belle gare della mia vita: con quel caldo, con quella tensione, con il non voler partire all’inizio e poi terminare con un’impresa del genere non è da tutti i giorni.

Alfreso Lami nel suo primo ristorante a Roma

Tu sei stato inoltre il primo massaggiatore in Italia con il diploma da massofisioterapista?

Sì. Dopo l’incidente, per non abbandonare questo sport che avevo nel cuore, mi diplomai come massofisioterapista alla Federazione Medico Sportivi Italiana e iniziai il lavoro come massaggiatore al giro d’Italia, che prima veniva fatto da ex ciclisti per guadagnarsi da vivere. Nel 1971 ho avuto l’onore di far parte del team del grande Aldo Moser e dopo un po’ ho smesso per iniziare come ristoratore.

Aneddoti su Aldo Moser?

Aldo Moser, dopo un giro d’Italia, dove aveva ottenuto la maglia rosa come più vecchio ciclista d’Italia, mi invitò a casa sua. Il “vecchio” Aldo mi chiese se potessi fare un massaggio al “Boccia” Francesco Moser, che allora aveva solo 17 anni. Quando terminai mi fece la domanda: “pensi che anche lui potrebbe diventare un buon corridore?”. Io risposi: “tuo fratello ti darà tanti dispiaceri…” – naturalmente Aldo divenne immediatamente triste – io però aggiunsi immediatamente: “… perché diventerà molto, ma molto più bravo di te”. Al ché lui scoppiò in un sorriso di gioia.

Quando sei venuto la prima volta a Berlino?

Sono giunto qui, quando ancora lavoravo al Ministero. Allora c’era il commercio della Mercedes: in tanti le acquistavano usate in Germania e poi le rivendevano in Italia. È una cosa che ho fatto anch’io per poter aprire il mio primo ristorante a Roma. Dopo il divorzio ho deciso di trasferirmi a Berlino, che mi era rimasta nel cuore. Anche se il viaggio in treno era un’odissea a causa delle molte frontiere da passare: di solito durava 23 ore. Una volta stabilitisi in città, però, si ricevevano facilmente parecchi aiuti per aprire un’attività commerciale. Così con molti sacrifici, con giornate lavorative che raggiungevano le 20 ore, con la mia seconda moglie, siamo riusciti ad aprire più ristoranti e ad affermarci.

Che impressione ti ha fatto il Muro la prima volta che lo hai visto? Faceva paura?

Il Muro lo abbiamo percepito solo dopo qualche anno, perché io, i primi anni, li ho trascorsi nel ristorante a lavorare. Non avevo il tempo sufficiente per girare la città e fare il turista. Il Muro di per sé non faceva paura. Erano, invece, i Vopos, a far paura, che quando passavi ti puntavano contro mitra e pistole.

Ha influito comunque sulla tua vita?

Sì, sorgevano sempre così tanti problemi ogni volta che volevamo andare a trovare i nostri familiari in Italia, che decisi di trasferirmi nella Germania Ovest. Forse questa è stata la peggiore idea della mia vita. Ad Ulm ho acquistato, giusto qualche tempo prima della caduta del Muro, un hotel ed un ristorante che mi hanno portato grandi perdite. All’inizio si lavorava moltissimo ed il paese era anche bello. Con la caduta del Muro, le cose hanno continuato ad andare bene i primi tempi. Poi è iniziata la crisi. Inoltre mia moglie voleva vivere l’elettrizzante atmosfera che si percepire nella Berlino riunificata.

È difficile accontentare la clientela tedesca?

La clientela tedesca non ha particolari desideri. Il cibo deve essere di buona qualità ma ciò che gradiscono di più è la velocità. Quando si siedono in un ristorante, credono che in cucina si lavori con la macchina fotografica invece che con le padelle.

Tra le cose più richieste ci sono sempre pasta, pizza e gelati?

Senza dubbio. Siamo il popolo più ben voluto dai tedeschi nonostante i molti disguidi e alla fin fine penso che ci stimino anche.

Quanto è cambiata la gastronomia italiana dagli anni ’80 fino ad oggi?

Secondo me è cambiato poco, perché sin dall’inizio, i primi emigranti hanno abituato i tedeschi non a mangiare originale italiano bensì hanno adattato la nostra cucina al gusto del tedesco. I piatti hanno sempre molta panna. E questo è un controsenso: i tedeschi vogliono pochi grassi, poi alla fine mangiano molta panna, che ne è piena. E quando gli dai una bistecca gli devi levare fino all’ultimo pezzettino di grasso, se no dicono che non è buona. Si utilizzano dunque, da sempre, questi piccoli accorgimenti per accontentarli.

di Emilio Esbardo

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