di Giulia Bianchi
Dopo la marcia di protesta a piedi da Würzburg a Berlino, il 6 ottobre, all’incirca 70 persone, si sono accampate con le loro tende sulla piazza Oranienplatz, nel quartiere di Kreuzberg, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro situazione in Germania.
Sono fuggitivi provenienti da Paesi quali l’Afghanistan, la Siria, l’Iraq, la Serbia, dove vi è una situazione instabile ed insicura.
Protestano in territorio tedesco, per ottenere il permesso di lavoro, e così potersi mantenere da soli, per l’abolizione dell’obbligo di residenza e contro i cosiddetti centri collettivi, dove vengono ospitati (in tedesco Sammlerunterkünften).
Secondo il parere di alcuni rappresentanti politici, dovrebbero avere accesso agli aiuti sociali come ogni cittadino tedesco.
Ho preso la decisione di recarmi alla piazza Pariser Platz, dopo essermi casualmente imbattuto in una marcia di protesta spontanea, non programmata, contro la polizia, accusata di aver arrestato tre di loro ingiustamente.
Su questa storica piazza, di fronte alla Porta di Brandeburgo, il simbolo di Berlino, 25 persone, che fanno parte dei fuggitivi accampati a Oranienplatz, hanno deciso di continuare la loro lotta: fanno lo sciopero della fame dal 24 ottobre.
Al mio arrivo c’erano all’incirca una cinquantina di volontari che prestavano soccorso. Un gruppo musicale si esibiva per raccogliere denaro a favore di queste persone.
Le autorità competenti del quartiere Mitte, dove si trova la Porta di Brandeburgo, hanno deciso che essi non possono utilizzare tende, materassi, coperte e scatole di cartone.
Al contrario, nel comune di Friedrichshain-Kreuzberg, il cui sindaco è Franz Schultz dei Verdi, è stata deliberata l’autorizzazione per l’utilizzo di tende sulla Oranienplatz fino al 30 novembre.
A favore delle richieste dei fuggitivi si sono schierati i partiti della Sinistra, i Verdi e i Pirati.
Le persone, davanti, alla Porta di Brandeburgo, sono dunque esposte al freddo e alla fame.
“Non fa niente”, ha detto C., il quale è dovuto fuggire dall’Iraq, perché fa parte della minoranza curda, attualmente repressa.
“Siamo disposti a morire”, ha aggiunto, “perché vogliamo che le autorità tedesche ci riconoscano come essere umani prima ancore che come fuggitivi. Siamo persone di differenti nazioni che vogliono cambiare delle leggi ingiuste”.
C. ha avuto la possibilità di frequentare le scuole per 4-5 anni. Poi è stato costretto a smettere di studiare. Lui e la sua famiglia hanno avuto gravissimi problemi in Iraq.
“In Germania”, mi ha confidato, “non abbiamo il permesso di lavorare, né tantomeno di allontanarci dai centri collettivi. È come una prigione”.
Mentre discutevo con C. sono giunti i poliziotti, che secondo ciò che mi è stato raccontato da molti di loro, vengono spesso tra le due e le sei di notte, per confiscare i loro beni. Tra i singoli poliziotti vi è un atteggiamento differente. C’è chi permette di mantenere, ad esempio, le coperte, e chi invece, intransigente alle regole, le porta via.
“Proprio come la gente che ci incontrava per strada durante la marcia di protesta da Würzburg a Berlino”, termina, così, C. il suo discorso: “alcune persone sono state molto buone e ci hanno aiutato. Altre, invece, vedendoci, ci hanno riso in faccia, ferendoci moltissimo. Molti, al contrario, hanno pianto. Il viaggio è stato molto faticoso. Nonostante ciò ce l’abbiamo fatta. Esattamente come ce la faremo ad ottenere le nostre richieste”.
di Emilio Esbardo