Intervista a Frank Horvat

Frank Horvat - foto: Emilio Esbardo

di Emilio Esbardo

Dopo la conferenza stampa riguardante la mostra “Newton. Horvat. Brodziak”, il fotografo italiano Frank Horvat mi ha concesso gentilmente un’intervista.


Signor Horvat, ho letto che lei, all’inizio, sarebbe voluto diventare scrittore. Perché?

Perché mia madre mi leggeva molta letteratura e dunque sognavo di questo. A scuola mi appassionavo per Leopardi.

Guardando una foto è possibile riconoscere se è stata scattata da un uomo o da una donna?

Forse, in certi casi. È relativamente raro. Probabilmente è più facile capire se una foto è stata scattata da un omosessuale, perché si esprimono in una maniera molto caratteristica. Gli omosessuali sono coscienti dei loro problemi e naturalmente li mostrano. Non c’è niente di male. Riguardo alle donne, ciò che io trovo interessante e che, tra di loro, vi è un’altissima percentuale di fotografe molto brave. Questa è una cosa molto importante.

Lei ha fatto “fotogiornalismo con interesse umano” e foto di moda. Non ha mai voluto fotografare i politici?

Era difficile. Io avrei voluto incontrarli e conoscerli. Una volta ho scattato una foto di de Gaulle, ad esempio, che mi piace molto.

“Interesse umano” e moda, non sono due mondi opposti tra di loro?

La contrapposizione sta nel fatto che nelle foto di moda c’è sempre qualcosa di preparato, necessariamente, perché bisogna trovare il vestito, la modella che li indossa bene, bisogna trovare gli accessori etc. dunque c’è una parte di preparazione. Invece con le foto di “interesse umano” meno preparazione c’è, molto più interessanti sono gli scatti.

Qual è, secondo lei, la differenza tra il fotogiornalismo del passato e quello odierno?

Bisognerebbe che lei prima mi dicesse che cos’è il fotogiornalismo di oggi, perché io non lo conosco. Non vedo delle buone riviste. Ne ho scoperta una a Berlino, che mi piace molto, che si chiama Cicero. Sono stato contento di averla conosciuta, perché le altre riviste sono senza interesse. Io non le guardo mai.

Come funzionava tecnicamente l’invio delle foto ai suoi tempi?

C’erano due modi. Uno dei fotografi, che erano organizzati bene con le redazioni delle loro riviste: essi inviavano le pellicole agli addetti uffici, che facevano la selezione delle loro immagini. L’altro dei fotografi, che improvvisavano, come me. Io lasciavo stampare le mie foto nella città dove mi trovavo, anche in Paesi come il Pakistan o l’India. Alla fine ero io stesso a fare le selezioni delle mie immagini. Non ho mai accettato che altri potessero scegliere per me tra le mie foto.

Le è mai capitato che le abbiano bruciato le foto?

Sì. Io stesso le ho bruciate, quando le ho sviluppate da solo. Mi è capitato di tutto.

Ha conosciuto Henri Cartier-Bresson?

Sì, quando avevo 22 anni. Come ho già scritto in tutte le mie autobiografie, lui mi ha detto che le mie foto non valevano niente. E dicendomi questo, ha risvegliato il mio orgoglio, facendo di me un fotografo. Gliene sarò eternamente grato.

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