Arte all’ombra del Muro - Intervista a Thierry Noir

Thierry Noir nel suo atelier - Foto: Emilio Esbardo

di Emilio Esbardo

Thierry Noir è nato il 1958 a Lione. Si è trasferito a Berlino nel 1982. Nella casa “Georg-von Rauch-Haus”, un ex ospedale, fa la conoscenza di Christophe Bouchet e di Kiddy Citny, tra i suoi futuri migliori amici, e con i quali diventerà famoso a livello internazionale per aver dipinto il Muro di Berlino. 


Thierry ha dipinto inoltre il tratto di Muro della via “Waldemarstraße” per il film di Wim Wenders il “Cielo sopra Berlino”. Conosciuti sono soprattutto i disegni di teste ovali, che oggi vengono ritratti in vari gadget per turisti, come magliette e tazze. Dopo la caduta del Muro, alcuni pezzi da lui dipinti sono stati venduti all’asta e oggi si trovano sparsi per il mondo.

Nel suo atelier, addobbato di numerose teste ovali di differenti dimensioni e colori, Thierry Noir mi racconta, in un’intervista, la sua avventurosa vita nella Berlino divisa e della celebre scena artistica della città degli anni ottanta.

Signor Noir, ci potrebbe raccontare, quando e perchè ha deciso di trasferirsi a Berlino?


Correva l’anno 1982, quando con due valigie partii per Berlino. Non sapevo esattamente perché, ma la città mi ispirava in una qualche maniera. Innanzitutto per via della musica. Allora qui vivevano anche Iggy Pop e David Bowie. E poi c’era il fenomeno della “Neue Welle”, chiamata “Nouvelle Vague” in Francia. A Lione, dove sono cresciuto, e in tutto il resto della nazione, a livello musicale, chi non faceva “Nouvelle Vague”, veniva considerato un idiota. “Dannazione”, ho pensato, “devo cambiare aria!”. Decisi di trasferirmi a Berlino. Perché tutti andavano lì. Così ho comprato un biglietto di sola andata, per costringermi a rimanervi definitivamente

Com’era vivere in una città divisa da un Muro. Può ancora percepire l’atmosfera di allora?

Berlino ha totalmente cambiato volto da quando sono arrivato. Era un’isola all’interno della DDR. Io non lo sapevo, perché a scuola non ci avevano raccontato nulla di tutto ciò. In storia eravamo arrivati fino al 1945. Per questo motivo mi sono spaventato moltissimo quando, nel treno notturno, ho visto tutti quei soldati tra Francoforte e Berlino. I controlli erano interminabili. Ad un certo punto un agente mi ha gridato: “Per Berlino ovest?”. Ma io, non conoscendo il tedesco, non riuscivo a capire cosa volesse. Un signore dietro di me mi ha suggerito di rispondere “Ja!”. Mi hanno dato un timbro e hanno preso gli ultimi 5 marchi che mi erano rimasti. Sono giunto così, senza un centesimo, alle sei del mattino, alla Stazione “Zoologischer Garten”. Ho iniziato ad avere sensi di colpa ed ho esclamato: “Cosa ho combinato! Perché sono venuto qui!”. Ero senza famiglia e senza amici. Nella tasca avevo un foglietto di carta con scritto un vago indirizzo di un conoscente di una mia amica di Lione. Era troppo presto per presentarmi a casa di uno sconosciuto e dire: “Ciao sono di Lione! Come va?“. Decisi di entrare nel famoso locale “Presse Café”, oggi scomparso. Verso le 9 m’incamminai lungo il viale “Kudamm”, dove presi la U-Bahn, più confuso che mai. Avevo paura di finire nel settore est. Scesi alla fermata “Moritzplatz”. Dovevo raggiungere il quartiere di “Kreuzberg”. Il conoscente della mia amica fu molto ospitale e mi concesse di pernottare per un paio di giorni nel suo appartamento. In breve tempo, casualmente, trovai alloggio nella casa conosciuta con il nome di “Georg-von Rauch” e vi rimasi 20 anni.

All’epoca a Berlino c’era una ricca e famosa scena artistica. In città vivevano personaggi come David Bowie, Iggy Pop, D.A.F., Malaria, Nina Hagen, die Tödliche Doris, Lilli Berlin. Potrebbe descrivermi la scena artistica di allora?

La prima cosa, che ho notato quando sono giunto in città, è che moltissime persone che ho conosciuto erano artisti. Era incredibile. A Berlino avrò incontrato 20 artisti in una settimana. A Lione uno solo in 20 anni. Ad un certo punto qualcuno mi ha chiesto se anch’io fossi un artista ed io ho confermato. “Sono un multi talento”, ho aggiunto, caratteristica questa, che era comune a molti altri nella città divisa. Credo che fosse una necessità essere creativi, per non impazzire. A Berlino ovest vi era una certa forma di vita artificiale. Attraverso la creatività ci si sentiva vivi. Ed è esattamente ciò che ho provato anch’io. Le persone che tu hai citato le ho conosciute tutte durante la vita notturna. Vi erano club famosi come “Dschungel”, una discoteca nella via “Nürnberger Straße”. E poi c’era il noto “Risiko” nella strada “Yorkstrasse”, che apriva all’una di mattina e alle 10 era ancora pieno di gente. Era un periodo veramente folle. Alcune volte il proprietario doveva cacciarci via con la forza. Gridava veementemente: “Qui il proprietario sono io. Fuori tutti!”.

Thierry Noir e Kiddy Citny in un locale a Checkpoint Charlie - Foto: Emilio Esbardo

Com’è stato lavorare con Wim Wenders?

Wim Wenders si è trasferito a Berlino dopo un lungo periodo negli Stati Uniti. Voleva ritornare per girare un film in Germania. Era divenuto famoso con il suo film: “Paris Texas”, con il quale ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 1984. Anche lui ha iniziato a frequentare la vita notturna, per inserirsi nell’intera scena berlinese. Nel locale di dischi “Gift”, luogo di ritrovo per musicisti, ha conosciuto Nick Cave, i “City Solution”, gli “Einstürzende Neubauten”, tutti presenti nel suo film “Il Cielo sopra Berlino”. Io lo incontravo spesso nel locale “Paris Bar”. Una volta quando ho venduto uno dei miei quadri, lui era presente e mi ha proposto di dipingere una parte del Muro per il suo film. Io ho accettato e nella via “Waldemarstraße”, a meno 20 gradi ho dipinto qualcosa come 100 metri: il mio record. Si gelava per il freddo. Con me avevo portato 15 litri di colore in un secchio ed ho terminato il tutto in un pomeriggio. A febbraio del 1987 abbiamo poi girato la scena, con il famoso attore Bruno Ganz, a 10 gradi sotto zero. Abbiamo dovuto ripetere la parte 8 o 9 volte. È stato un lavoro durissimo.


Quando ha iniziato a dipingere il Muro?

Dopo due anni dal mio arrivo. Io non ero venuto qui appositamente per dipingere il Muro. È accaduto casualmente. Sono venuto a Berlino, dopo aver ascoltato i versi della canzone di Lou Reed: It was so nice, it was paradise, Berlin by the wall. (Era così bello, era il paradiso, Berlino accanto al Muro). Un paio di giorni dopo il mio arrivo in città, uscito dall’appartamento del conoscente della mia amica, ho iniziato a camminare semplicemente lungo il Muro ed ho trovato alloggio in questa casa, “Georg-von-Rauch-Haus” che credevo fosse quella dove aveva abitato lo stesso Lou Reed. Solo successivamente, mentre seguivo un’intervista a Lou Reed in televisione, appresi che lui allora non era mai stato a Berlino e che l’ispirazione per la canzone gli era venuta dai libri che aveva letto in una biblioteca a New York. Avevo seguito il consiglio di una persona che non era mai stata a Berlino. Incredibile! Eppure ha fuzionato! La casa “Georg-von-Rauch-Haus” in precedenza aveva funto da ospedale. La parte posteriore era a 8-10 metri dal Muro ed era stata divisa in piccole camere singole di circa 12-15 metri quadri. Non avevamo l’acqua. Al bagno dovevamo tenere le finestre chiuse, perché venivamo osservati dalla torretta di guardia. I soldati ci guardavano in modo penetrante mentre urinavamo. Era veramente una situazione sgradevole. Ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa, per non impazzire. Così lentamente mi venne in mente di dipingere il Muro. Nella casa avevano i loro atelier anche altri artisti come Christophe Bouchet ed era frequentata da Kiddy Citny e Alexander Hacke, dove venivano a provare i loro pezzi musicali. Ci siamo detti: “Dobbiamo dipingere il Muro!”. Era un’idea nuova. All’epoca c’erano soprattutto delle scritte divertenti o politiche contro gli americani come: “Tornatevene negli USA!”. All’inizio la gente era sconvolta. Credevano che ero stato ingaggiato dalla CIA o dalla CDU, per dipingere sopra quelle frasi. Poi hanno capito che era una mia iniziativa per abbellire il Muro. Cosa, comunque impossibile, perché non si può rendere bello qualcosa che genera morte e dolore.


Thierry Noir nel suo atelier - Foto: Emilio Esbardo

I suoi motivi più frequenti sono teste ovali? Come le è venuta l’idea?

Queste teste caratteristiche non mi sono cadute dal cielo. Si sono formate da sole, lentamente. Cominciai facendo raffigurazioni complicate. In seguito compresi che curando troppo i dettagli del disegno non avrei mai portato a termine la mia opera. E poi c’erano queste lunghissime discussioni con la gente. Quasi sempre la prima domanda dei passanti era: “Chi è che paga per questa porcheria?!”. Così ho cambiato il mio stile: le teste sono scivolate dal mio pennello, per così dire.

Non ha mai avuto paura dei soldati della DDR? Ha mai vissuto una brutta esperienza?


Era il 16 maggio 1984, quando il team di “SFB”, oggi “RBB”, che organizzava una trasmissione sulla vita notturna berlinese, si avvicinò a me e a Christoph Bouchet, proponendo di riprenderci mentre dipingevamo il Muro nelle ultime ore precedenti all’alba. Accettammo entusiasti e decidemmo di fare qualcosa di particolare. Ci procurammo una pesantissima porta di metallo da attaccare al Muro. L’opera si sarebbe intitolata “La porta per il paradiso”. Il mattino seguente di fronte alle telecamere iniziammo a fare dei buchi con il trapano. Dopo qualche minuto uno dei giornalisti iniziò a urlare: “Attenzione! Interrompere immediatamente l’azione!”. Sollevando il capo notai un soldato che mi osservava da sopra il Muro. Fui assalito dal panico. Ci rintanammo immediatamente in casa. Fuori era esploso l’inferno. Avevano fatto scattare l’allarme generale. Dalla finestra del bagno abbiamo osservato l’arrivo di camion con numerosi rinforzi. Avevamo paura di aver provocato la terza guerra mondiale. Improvvisamente dei soldati armati hanno scavalcato il Muro ed hanno sollevato la pesantissima porta in metallo dall’altra parte. Dopo la riunificazione ho tentato inutilmente di recuperarla.


Che cos’era l’azione “Hommage à Marcel Duchamp?”


L’avevamo organizzata una settimana prima di questa spiacevole avventura. Avevamo trovato dei lavandini e un pisciatoio nel centro giovanile e ci sembrava peccato doverli buttare via. Così abbiamo pensato di attaccarlo al Muro. A New York Marchel Duchamp ne aveva esposto uno, creando uno scandalo. Esso venne però definito come opera d’arte. Anche noi abbiamo creato uno scandalo e al contempo un’opera d’arte.

Ha mai visitato Berlino est?

No. Per me era troppo pericoloso. Dipingere il Muro era vietato ed avevo paura di essere riconosciuto.


Crede che sia stato giusto far scomparire così velocemente tutte le tracce del Muro?

Allora regnava l’euforia e la parola d’ordine era: “Il Muro deve scomparire!”. Ed è successo. Il processo è durato quasi un anno. Poi ci si è resi conto che se ne sarebbero dovuti preservare alcuni pezzi, per non dimenticare completamente il passato e ricordare ciò che era successo. Noi artisti nel 1990 abbiamo iniziato il progetto della “East Side Gallery”, che oggi, con i suoi 1,3 km, è la parte di Muro più lunga rimasta in città, ricoperta dai nostri dipinti. Essa serve a ricordare che cosa spaventosa fosse il Muro.

Secondo Lei, l’arte può cambiare il mondo?

Sì. Ne sono profondamente convinto. L’arte è un potente mezzo di comunicazione.


Quali sono i suoi progetti futuri?


Al momento ha luogo una mia mostra vicino al ponte “Oberbaumbrücke”, dove espongo tre segmenti di Muro con miei dipinti. Oggi a Berlino posso dipingerli. Nel 1989 credevamo che la libertà ci fosse caduta dal cielo e che l’intero pianeta fosse divenuto un paradiso e che non ci sarebbero state più dittature. Dopo 20 anni è stato terribile per me leggere una lista di molti nuovi muri costruiti nel mondo. Bisogna però con piccoli gesti, come quello di dipingere segmenti del Muro di Berlino, comunicare che essi non staranno lì per l’eternità. Sono destinati a cadere come quello di Berlino.

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